Orologio appresentante il part-time nel lavoro
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“Svalutazione” del part-time e discriminazione indiretta delle lavoratrici

La Cassazione, con l’ordinanza n. 4313 del 19/2/2024, si è espressa riconoscendo la discriminazione avvenuta nei confronti di una dipendente di sesso femminile impiegata con contratto di lavoro part-time. Nel caso esaminato dalla Corte il datore di lavoro aveva assegnato alla lavoratrice in forza con contratto part-time, ai fini della progressione economica, un punteggio ridotto, in proporzione al numero di ore svolte, rispetto ai colleghi con pari anzianità ma impiegati a tempo pieno. La Corte ha specificato che non sempre il lavoratore, solo perché full-time, acquisisce maggiore esperienza del lavoratore part-time, considerando piuttosto più importante, come misura di paragone, la qualità del lavoro svolto.

La rilevanza della sentenza del 2023 e la discriminazione indiretta

Già nel 2023 la Cassazione, con sentenza n. 10328, aveva precisato che:

non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell’orario di lavoro e riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche

Corte di Cassazione – Sentenza n. 10328, 2023

riconoscendo in capo al datore di lavoro l’onere di provare che il rapporto tra anzianità e ore di lavoro avesse effettivamente un fondamento razionale e che non rappresentasse una discriminazione nei confronti del lavoratore a tempo parziale.

Nel caso specifico, la Corte di Cassazione ha valorizzato la precedente pronuncia del giudice di merito, che ha fatto ricorso al dato statistico documentato della presenza di donne in stragrande maggioranza, tra i dipendenti del datore di lavoro in questione, che chiedono di usufruire del part-time, confortato dalla considerazione che in Italia i contratti di lavoro part-time sono più frequentemente richiesti dalla popolazione femminile, per permettere alle donne di conciliare la loro vita lavorativa con l’ambito famigliare ed assistenziale.

La “svalutazione” del part-time

Dunque, partendo da tale presupposto, la “svalutazione” del part-time può essere ricondotta ad una discriminazione di genere “indiretta” che, ai sensi dell’art. 25, comma 2 del D.Lgs. 198/2006, si verifica quando

una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

Art. 25, comma 2 del D.Lgs. 198/2006

Tale “svalutazione” del part-time e la conseguente mancata progressione economica, penalizza, di fatto indirettamente, tutte le donne che, afferma la Corte, subiscono già un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro.

I criteri giurisprudenziali sopra richiamati meritano attenzione, in particolare qualora ci si stia preparando ad intraprendere un percorso di certificazione di parità (art. 46-bis D.Lgs. 198/2006), la quale potrà essere conseguita nel rispetto di politiche aziendali volte a ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, della parità salariale a parità di mansioni e alle politiche di gestione delle differenze di genere.

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